Il manifesto degli schiavi moderni

Operai,

centocinquanta anni fa il Manifesto del Partito Comunista veniva dato alle stampe. Era il febbraio del 1848. La Lega dei Comunisti, associazione internazionale degli operai, così la definiva uno degli autori, incaricò i signori Marx ed Engels di redigere il programma pratico e teorico del partito.

Professori universitari, giornalisti, capi di partito che si collocano nella sinistra hanno organizzato per l’occasione conferenze, dibattiti e seminari. Chi per scoprirne l’attualità, chi per darlo come un pezzo di archeologia sociale, nessuno, da quello che risulta dagli scritti pubblicati, dalle dichiarazioni fatte, ha capito niente di questo piccolo opuscolo di quaranta pagine. Oppure, nella migliore tradizione falsificatoria, lo hanno completamente stravolto.

Il Manifesto Comunista, perché è con questo titolo che Marx ed Engels lo ristamparono nelle successive edizioni tedesche, probabilmente per toglierlo dalle grinfie di un qualche partito particolare di questo o quel paese, non è il libro delle previsioni, né il libro delle utopie, né tantomeno un’icona sacra a cui giurare astratta fedeltà. Il Manifesto Comunista è il grido di guerra di una classe contro un’altra, degli operai contro i borghesi, degli operai in rivolta contro la società che li produce e riproduce come schiavi.

Masse di operai addensati nelle fabbriche, organizzati militarmente - così ci descrive il Manifesto -, sottoposti ad una gerarchia di ufficiali e sottufficiali, e siamo ancora noi. Non solo schiavi della classe borghese, dello Stato borghese, ma - continua il Manifesto - ogni giorno ed ogni ora resi schiavi della macchina, dal sorvegliante, dal singolo padrone di fabbrica. Questo dispotismo è tanto più misero, odioso, esasperante quanto più apertamente proclama come suo ultimo fine il guadagno.

Di chi si sta scrivendo nel Manifesto del 1848? Di che tipo sociale si descrive la condizione produttiva? Degli operai. Senza ombra di dubbio, degli operai di oggi, alla Fiat, alla General Motors, in ogni fabbrica ed in ogni parte del mondo. Operai, il Manifesto è il nostro manifesto, è il manifesto della nostra rivoluzione contro il capitale.

Si fosse alzato un intellettuale, che può essere ascoltato da tanti, staccato dal coro dei commemoratori ufficiali, e avesse gridato: il Manifesto di cui parliamo è la prima cosciente dichiarazione di guerra degli schiavi moderni, è il manifesto della rivolta violenta del proletariato moderno contro la società del capitale. Niente! Ancora una volta si dimostra che avevano ragione Marx ed Engels. Solo in particolari momenti di crisi sociale, e lo fanno faticosamente, alcuni elementi delle classi superiori si staccano dalla parte della classe dominante per mettersi dalla parte della classe oppressa. Fuori da questi momenti solo ruffianeria, difesa degli interessi di chi paga, falsificazione di ogni dato storico. Sono stati capaci di cancellare dal Manifesto gli operai e la loro liberazione. Probabilmente si sono procurati una ristampa particolare del testo o hanno la vista variabile, certe pagine sono ai loro occhi indecifrabili e vanno saltate.

Globalizzazione, questo è il massimo di previsione che hanno potuto scorgere nel Manifesto. La borghesia produce, innanzitutto, né globalizzazione, né sviluppo del mercato mondiale, né nuovi sistemi produttivi. Essa produce innanzitutto i suoi seppellitori. "Innanzitutto" - precisa il Manifesto - produce coloro che le recheranno la morte, gli operai moderni, i proletari. Ma chi poteva leggere nel Manifesto queste righe, chi? Pietro Ingrao? La Rossanda? Potevano forse riconoscere che la borghesia, e cioè la loro classe, sta producendo con lo sfruttamento industriale il suo terribile avversario? Potevano, raffinati intellettuali legati al governo, leggere nel Manifesto che questo terribile avversario della società moderna per sollevarsi dalla sua condizione di schiavo non può far altro che far saltare per aria, mandare in rovina tutta la sovrastruttura della società ufficiale con tutte le sue sicurezze e i suoi privilegi ?

Nessuno degli intellettuali che hanno commemorato l’uscita del Manifesto poteva farlo. Lo schiavo si impone all’attenzione della società solo nel momento in cui diventa socialmente pericoloso. Altrimenti non esiste o è solo un ricordo del passato, e con lui non esistono più nemmeno coloro che lo tengono schiavo. Per la buona pace di tutti.

E invece è successo l’irreparabile, abbiamo, noi operai di oggi, preso il Manifesto e lo abbiamo riletto. Siamo andati al testo originale ed abbiamo scoperto che anche nella traduzione i Togliatti, le Cantimori ci hanno dato una merce scadente. Il testo originale è stato smussato, addolcito, reso più presentabile ai borghesi. Ma anche così abbiamo scoperto che non è il programma di un partito particolare, di un partito che può usarlo come un vecchio vestito fuori moda anche se ancora bello da vedere, esso è prima di tutto il manifesto di una classe rivoluzionaria; e non è il manifesto della evoluzione sociale, ma della rovina della moderna società; non fu stampato per i dibattiti salottieri, ma per la lotta di strada. Non è il manifesto delle critiche alle storture del capitalismo, ma del capitalismo stesso nel suo migliore e più sviluppato funzionamento.

Liberazione degli operai, conquista del potere sulla società, abolizione della proprietà privata, assuma essa la forma di proprietà individuale o statale capitalistica. Un attacco alla proprietà privata che è ampiamente sottaciuto dai lettori di oggi del Manifesto. Si capisce: solo una classe che non possiede che la forza lavoro e quattro suppellettili nelle quali è possibile nutrirla e riprodurla come tale poteva scoprire nella proprietà privata dei mezzi di produzione la base del suo sfruttamento. Gli operai hanno ampiamente dimostrato la disponibilità ad usare le loro miserabili proprietà nella barricata, a bruciarsele in un attimo nel momento in cui è la sommossa che decide dei rapporti fra le classi. I titoli di proprietà sulle fabbriche, sui mezzi di produzione, sui palazzi, sulla terra vanno aboliti. Non per altro: è solo ricchezza sociale che va espropriata agli espropriatori di oggi, ai padroni. Per questa ragione i proletari non hanno niente da perdere e lo hanno dimostrato ogni volta che hanno ingaggiato la loro guerra contro di loro.

Finalmente abbiamo imparato a leggere. Dopo 150 anni il Manifesto del Partito Comunista è senza partito. Lo hanno ridotto ad un simbolo morto dell’utopia del diciannovesimo secolo. Lo possiamo acquisire direttamente, non dobbiamo pagare nessuna mediazione all’organizzazione che se ne faceva l’interprete ufficiale e lo rimaneggiava nelle scuole di partito o con prefazioni ammorbidenti.

Il Manifesto lo traduceva e faceva pubblicare Togliatti nel 1948, nello stesso tempo in cui aiutava il capitalismo italiano a ricostituirsi, e sosteneva che il Manifesto era la guida ideale del partito che dirigeva. Quali e quante giravolte, contorsioni mentali i famosi intellettuali di sinistra hanno dovuto fare e legittimare per adeguare i signori Marx ed Engels ai loro bassi interessi di bottega.

Il Manifesto Comunista torna agli operai come programma della loro liberazione, come manifesto del partito che si deve costituire. Gli operai si costituiscono in classe e con ciò in partito, ma vengono dispersi dalla concorrenza, una parte di essi viene anche comprata, la loro classe si disgrega, si trasforma.

I partiti che di fase in fase ne formalizzano la costituzione in classe seguono lo stesso processo, vengono dispersi, cambiano, si imborghesiscono, diventano parti integranti del sistema.

Gli operai ricominciano d’accapo, fanno delle sconfitte del passato una scuola ineliminabile e necessaria. Ricominciate d’accapo - incita il Manifesto: l’organizzazione degli operai in classe e con ciò in partito politico risorge sempre di nuovo più forte, più salda , più potente.

Milano, dicembre 1998